Sin d’ora non si può non rilevare, infatti, in via di prima approssimazione, che nel caso in cui il contesto della competizione sia occasionale o si svolga in via amatoriale, pare difetti quella particolare ed elevata carica agonistica che sembra giustificare, invece, a livello professionistico l’innalzamento della soglia del cosiddetto rischio consentito e la conseguente riduzione dell’area dell’antigiuridicità.
Come detto, ciononostante, nel caso in esame, i Giudici di legittimità hanno preferito glissare sul punto e applicare nella decisione i principi e le norme propri della responsabilità sportiva anche alle ipotesi di attività amatoriali.
Ad alimentare i dubbi sull’esatta ricostruzione della responsabilità civile nei casi in cui ci si trovi a dover giudicare di eventi lesivi occorsi durante un evento amatoriale, è anche l’assenza di una chiara definizione e di una netta distinta disciplina delle diverse pratiche sportive amatoriali, dilettantistiche e professionistiche.
La possibilità di un’equiparazione dello sport amichevole a quello professionistico agli effetti del giudizio di responsabilità civile sportiva ( questo è il tema dell’indagine) è, infatti, in verità questione che involge un tema più ampio, a partire dalla stessa qualificazione dello sport e dalla sua definizione, aspetto questo sui cui la dottrina da tempo dibatte.
Al fine di individuare tra le attività umane quelle rilevanti come attività sportive, infatti, si è osservato in proposito che, trattandosi di apprezzare la meritevolezza degli interessi di cui è espressione l’attività umana, occorre valorizzare il dato sostanziale e non formale che connota l’attività sportiva, e che, quindi, in realtà il problema definitorio finisce per essere astratto, mentre la qualificazione va fatta in concreto, sulla base di un giudizio squisitamente casistico.
Sotto altro profilo, va rilevato anche, come noto, che negli ultimi decenni la pratica di attività sportiva ha conosciuto un notevole incremento, determinando così la diffusione dello sport, che da fenomeno elitario, quale era all’inizio del XX secolo, si è imposto come “di massa”. Cosicchè il settore sportivo oggi denota una complessità soggettiva ed oggettiva tale per cui innanzitutto, occorre riflettere su cosa si intende per sport amatoriale.
Sussiste infatti una molteplicità di soggetti, persone fisiche, atleti, dirigenti, medici, procuratori, e persone giuridiche, siano essi Enti, Federazioni, associazioni, Leghe, che a vario titolo sono coinvolti nell’esercizio dello sport; dal punto di vista oggettivo, invece si assiste al proliferare delle discipline sportive, rispetto alle quali si pone il quesito di stabilire quali siano quelle regolamentate e riconducibili ad un’organizzazione di tipo federale.
Ciò posto, in questo quadro complesso si colloca la problematica classificazione e distinzione dei vari livelli della pratica delle attività sportive, amatoriale, dilettantistica, semiprofessionistica e professionistica, così come, più specificamente, si pone il problema di stabilire se ci si trovi di fronte ad un’attività praticata a livello amicale ma del tipo di quelle riconosciute e regolamentate ufficialmente, ovvero si tratti di un gioco non riconducibile ad uno sport per dir così ufficiale, riconosciuto, ma che rappresenti comunque una competizione mirante a stabilire sia pure occasionalmente un vincitore.
A ben guardare è la stessa definizione di sport come qualsiasi forma di attività fisica che, attraverso una partecipazione organizzata o non, abbia per obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo delle relazioni sociali e l’ottenimento di risultati in competizione a tutti i livelli, che mette in crisi i tentativi di stabilire un netto distinguo tra sport amatoriale e non, ai fini dell’applicazione di un unico canone di responsabilità.
La dottrina che di recente ha affrontato la spinosa questione della definizione e selezione delle attività riconducibili all’area dello sport, se da un lato ha criticato la scelta di qualificare come sportive le sole attività rispondenti ad un criterio formale-soggettivo fondato sul riconoscimento della relativa disciplina da parte del Coni, dall’altro tuttavia sembra aver scelto comunque di attrarre nell’ambito del fenomeno sportivo le sole discipline organizzate rispondenti a regole comunemente condivise e praticate17, ma soprattutto connotate dal carattere della competitività.
Partendo da questo aspetto, è il caso di domandarsi, allora, se debbano essere ricondotti all’area dello sport in senso stretto le contese sportive amichevoli e/o amatoriali. Si tratta altrimenti di stabilire se ad esse sia proprio quel carattere di competitività che connota lo sport organizzato e se ad esse vada applicato il regime della responsabilità sportiva tradizionalmente fondato sul rischio consentito.
Si potrebbe affermare che l’elemento di distinzione tra la competizione sportiva tout court tra atleti e la partita giocata in contesto amicale risieda proprio nell’elemento “organizzazione”. Difficile è non notare come diversa sia l’ipotesi in cui gli atleti, sebbene minori giochino nell’ambito di una competizione organizzata rispondente a regole predeterminate e note, da quella in cui essi stessi si riuniscono occasionalmente per motivi di svago.
Il dato di diritto positivo non è chiaro.
Dalla legge sul lavoro sportivo è possibile ricavare solo una definizione di sport professionistico, alla quale quindi per esclusione si può opporre quella di sport non professionistici (nella quale categoria andrebbero ricompresi non solo quelli svolti a livello dilettantistico, ma anche quelli amatoriali).
A complicare ulteriormente la questione interviene la normativa di rango secondario dello Stato.
Infatti, se, da un lato, la nozione di atleta dilettante sembra essere superata ad opera del Coni che (nella deliberazione del Consiglio Nazionale n. 1256 del 23 marzo 2004 in tema di Principi fondamentali degli Statuti delle federazioni sportive nazionali, delle discipline sportive associate e delle associazioni benemerite) si limita a distinguere l’attività professionistica da quella non professionistica senza menzionare “l’attività dilettantistica”, dall’altro, la figura dell’atleta dilettante è stata espressamente contemplata dal legislatore nazionale (D. M. 17 dicembre 2004 in materia di tutela assicurativa, pubblicato in G. U. n. 97 del 28/04/2005) che definisce sportivi dilettanti: “tutti i tesserati che svolgono attività sportiva a titolo agonistico, non agonistico, amatoriale, ludico motorio o quale impiego del tempo libero, con esclusione di coloro che vengono definiti professionisti”.
Una parte della dottrina, alla luce della carente disciplina legislativa, ritiene insufficiente la classificazione e definizione delle attività sportive operata all’interno del sistema delle federazioni, e allo stesso tempo critica anche la scelta di utilizzare quale criterio discretivo il concetto di agonismo. Si osserva in proposito come anche lo sport amatoriale possa esser connotato da tale profilo, sia pure in misura minore, e come anch’esso debba esser sottoposto a delle regole, che i praticanti conoscono e o accettano.
Si pone quindi l’esigenza di distinguere non solo tra sport professionistico e dilettantistico, ma anche tra sport dilettantistico, amatoriale ed amicale, prendendo in considerazione la circostanza dell’inserimento dell’evento all’interno di un’organizzazione che coordini una gara.Tuttavia non si può escludere che, sia pure in diversi gradi e forme, in alcuni casi anche lo sport amatoriale od occasionale presenti i caratteri propri che rappresentano l’essenza dello sport e cioè agonismo e accettazione delle regole del gioco.
Sotto quest’aspetto, particolarmente problematico risulterà, tuttavia, stabilire le regole del gioco, nonché individuare in base a quale meccanismo esse debbano dirsi conosciute dagli sportivi e da essi accettate, in maniera tale da agevolare l’interprete o il giudice nella ricostruzione del giudizio di responsabilità.
Si discute infatti se le medesime regole che valgono nella competizione sportiva che si inserisce in un contesto di agonismo programmatico illimitato debbano applicarsi anche se il medesimo sport venga praticato occasionalmente in via amichevole (si pensi al classico esempio della partita di calcio tra amici, od addirittura tra minori).
Conseguenzialmente controversa di volta in volta risulterà l’esatta individuazione delle norme applicabili nel giudizio di responsabilità civile, laddove non è pacifico se l’accertamento dell’illiceità della condotta debba arrestarsi alla sola verifica della conformità alle regole del gioco ( se e quando individuate).
4. La responsabilità sportiva in ambito amatoriale
Se si considerano la progressiva erosione della differenza tra sport professionistico, sempiprofessionsitico e dilettantistico, che si evince dall’ordinamento comuniatrio, il progressivo riconoscimento allo sport amatoriale di una dimensione inutilitaristica occupazione del tempo libero, la crescente attenzione verso il fenomeno sportivo nelle sue manifestazioni extra-agonistiche e, più in generale, il riconoscimento del ruolo sociale dello sport a livello comunitario si comprende l’esigenza di una rinnovata riflessione sui limiti di liceità dell’attività sportiva amatoriale.
In particolare, appare lecito dubitare che la ricostruzione della responsabilità sportiva per gli eventi dannosi che dovessero occorrere nel corso di competizioni agonistiche in cui sia logicamente riscontrabile la cosiddetta “ansia da risultato” possa ritenersi valida anche se i fatti lesivi che si dovessero verificare in un contesto amatoriale, o quando l’evento sportivo pur inserendosi in un contesto organizzativo, abbia come protagonisti i minori, affidati per giunta ad associazioni sportive.
Se, infatti, sussiste una sorta di scriminante sportiva che si applica ogni qualvolta vi sia una manifestazione sportiva, con la funzione di rendere lecite condotte lesive, che cioè normalmente sarebbero fonte di responsabilità civile, ciò detto, non può ritenersi de plano sic et simpliciter scontata l’applicazione della medesima scriminante nel caso in cui l’attività sportiva venga svolta amatorialmente, oppure in allenamento, ovvero da minori.
La questione non è meramente teorica, poiché, come già precisato, dalla soluzione del problema, nell’un senso piuttosto che nell’altro, deriva l’applicazione di un diverso regime di responsabilità, civile o penale.
La competizione amatoriale è caratterizzata da una minore carica agonistica dovuta all’assenza di una eccessiva propensione al risultato e, pertanto, debbano essere affrontate con maggiore cautela, nel rispetto della capacità ed esperienza dell’avversario.
Si può rilevare che la ricostruzione della responsabilità sportiva amatoriale ovvero l’individuazione dei limiti della responsabilità sportiva tout court dipendono dall’esame di questi profili: la rilevanza delle regole sportive e la problematica individuazione delle stesse; lo stretto rapporto tra sport amatoriale e l’attività sportiva dei minori; l’applicabilità della clausola dell’accettazione del rischio allo sport praticato da minori.
Sotto altro profilo, non trascurabile, alla luce anche del caso concreto portato dalla sentenza in esame, in virtù del dovere di controllo e di educazione dei propri figli in capo ai genitori, si pone anche il problema di stabilire se e quando la responsabilità degli istruttori escluda quella dei genitori.
Infatti, ai sensi dell’art. 2048 c.c., la responsabilità dei genitori dovrebbe essere esclusa42 quando il minore abbia agito nel corso di una gara o durante gli allenamenti, essendo stato affidato all’istruttore.
In verità si discute se e quando i genitori debbano rispondere del fatto illecito commesso dal figlio minore, per esempio con riferimento ai casi in cui il fatto si presenti come del tutto anomalo in relazione all’indole e alle tendenze abituali del fanciullo, all’educazione ricevuta e alla normale vigilanza dovuta; ossia in tutti quei casi in cui il fatto del minore non sia ex ante prevedibile dai soggetti che su di esso esercitano la potestà.
Il che rimanda innanzitutto ad un accertamento nel caso concreto, e significa, per quello che interessa in questa sede, che il giudice dovrà valutare il grado di maturità del minore; anzi per questa la norma spiega una funzione di general prevenzione, atteso che si ritiene che essa debba indurre i genitori ad impartire una educazione sufficiente ed idonea ai figli.
Ciò non significa che il genitore, per andare esente da responsabilità, debba accompagnare costantemente il minore nelle proprie attività sportive ma si reputa sufficiente che impartisca un’educazione sportiva consona all’età.
Tuttavia questo richiede che sia il giudice ad accertare in concreto del grado di maturità del minore. Tale profilo dell’accertamento in concreto viene ad esser privilegiato per ammettere od escludere la responsabilità in capo ai precettori, istruttori e allenatori, i quali, personalmente oppure solidalmente con i gestori dell’impianto o gli organizzatori della competizione sportiva, rispondono dei danni cagionati dal minore e in base al disposto degli articoli 2047 c.c. e 2048 c.c. rispondono della mancata adozione delle opportune cautele finalizzate a prevenire l’evento dannoso ma anche per omissione dei poteri di controllo e di direzione sugli allievi.
Non è il caso di ripercorrere in questa sede le varie teorie da tempo elaborate in dottrina circa la natura giuridica delle due diverse figure di responsabilità ( ex art 2047 c.c. ed ex art. 2048 c.c.), né circa il possibile concorso della responsabilità dei genitori con quella degli altri sorveglianti (profilo questo che sarebbe stato interessante esaminare anche nel caso concreto), ovvero della possibilità di invocare la regola generale dell’art. 2043 c.c., basti tuttavia richiamare le difficoltà che si prospettano nei casi concreti allorquando si tratta di formulare un giudizio di responsabilità.
La giurisprudenza, a fronte della difficoltà di accertare in concreto quando vi sia un’effettiva responsabilità, ritiene a tal fine che la valutazione del comportamento tenuto dall’istruttore non debba effettuarsi in base ai parametri previsti secondo uno standard astratto di “buon insegnante”, bensì debba operarsi sul singolo caso concreto, dovendo tener conto di circostanze quali l’età, la formazione, il grado di maturità dell’allievo e le condizioni ambientali nelle quali si è svolto l’insegnamento della disciplina; di conseguenza, la probabilità di affermare la responsabilità dell’istruttore sarà maggiore in caso di allievo minorenne ed inesperto nella disciplina sportiva, richiedendosi in tali situazioni una vigilanza massima per continuità ed attenzione.
Questo è l’orientamento prescelto anche in altra decisione, che in verità ha richiamato non la responsabilità che fa capo alle persone fisiche degli istruttori, essendo stata chiamata a giudicare della responsabilità dell’ente associativo in base al disposto dell’art. 2047 c.c.
In tal caso, sposando l’orientamento secondo cui la responsabilità ex art. 2047 è responsabilità per fatto altrui la Corte ha ritenuto dovesse prescindersi dall’accertamento del dolo o della colpa ed andare ad apprezzare la sussistenza di tutti gli altri elementi che intergrano l’illecito, e tra questi i giudici si sono soffermati sulla antigiuridicità della condotta.
In definitiva l’attenzione del giudicante si è concentrata tutta sul profilo dell’antigiuridicità della condotta. Si è affermato, quindi, che affinché il sorvegliante sia tenuto al risarcimento occorre che il danno sai arrecato non iure cioè sia inferto in assenza di una causa giustificativa, che nel caso di specie è stata ritenuta sussistere proprio quale scriminante sportiva tout court.
Infatti, i giudici di legittimità hanno ritenuto che la circostanza della minore età, il carattere dilettantistico della gara non fossero sufficienti ad escludere l’applicazione del noto principio secondo cui la responsabilità va esclusa tutte le volte in cui oltre a sussistere un nesso funzionale tra l’azione di gioco e l’evento lesivo vi sia un grado di violenza compatibile con lo sport praticato.
Essi hanno quindi precisato che la valutazione della minore età degli atleti, del carattere dilettantistico dell’evento, nonché del grado di violenza dell’azione compete al giudice di merito, e, soprattutto, che si tratta di una qualità di cui il giudice deve tener conto nel giudizio di bilanciamento tra il grado di irruenza manifestato e la normalità dello sport praticato in quelle circostanze.
c) l’applicabilità della clausola dell’accettazione del rischio allo sport praticato da minori
L’argomentazione della Corte porta quindi a riflettere su un altro aspetto. La presunzione di (tacito) consenso al rischio da parte degli atleti, che decidono di impegnarsi nelle attività sportive, appare difficilmente configurabile in capo ai minori coinvolti che praticano lo sport amatoriale tra amici ovvero presso le scuole e le parrocchie.
Allo stesso modo, va detto quanto sia difficile appurare se essi conoscevano durante la partita le regole di quel gioco o sport e se fossero tenuti al tempo stesso al rispetto delle medesime.
Da tale ragionamento dovrebbe dedursi che l’attività sportiva non direttamente riconducibile alle competizioni ufficiali non possa soggiacere agli effetti della scriminante fondata sul rischio consentito.
Occorre, infatti, dar conto della difficoltà di riferire ai minori l’accettazione del rischio (nonché il rilascio del tacito consenso), soprattutto perchè attraverso l’applicazione di un criterio alquanto restrittivo di imputazione della responsabilità aquiliana, essa finisce per limitare l’ambito di tutela del minore danneggiato rispetto al regime ordinario di responsabilità extracontrattuale.
In tali casi difficilmente potrà ammettersi tout court la limitazione di responsabilità che è giustificata in virtù del favore dell’ordinamento verso lo sport, in generale, e verso il gioco di ruba-bandiera, in particolare.
Si può concludere nel senso che la difficoltà di ricostruire la responsabilità sportiva in ambito amatoriale risiede nell’individuazione delle regole del gioco, dalla quale dipende strettamente, ove non si ritenga applicabile il rischio consentito, la valutazione tesa a stabilire se l’atto, violando le regole, sia trasmodato nel disprezzo, o anche soltanto nel mancato rispetto (che è cosa assai diversa) dell’altrui incolumità fisica.
Ciò non può significare se non che in ambito amatoriale più che in ogni altro contesto agonistico lo sport debba rispondere al dovere generale di lealtà sportiva.
Conclusioni in merito al primo punto
Non può negarsi che esiste un minimo comun denominatore che accomuna tutti i tipi di sport anche a livello amatoriale, rappresentato dallo spirito competitivo, dal rispetto delle regole del gioco, governati dal principio del fair play.
Spetterà al giudice tenere conto dei principi generali dell’ordinamento statuale e segnatamente dell’art. 2 Cost. ogni qualvolta la verifica del superamento della soglia del rischio consentito o la giustificazione del fallo per la foga agonistica del risultato non siano sufficienti.
Esiste l’esigenza una più rigorosa valutazione del rispetto delle regole del gioco ovvero della colpa sotto il profilo dell’imprudenza, nonché della riferibilità del rischio consentito all’attività sportiva svolta in ambito amatoriale.
Se si parte dall’inopportunità di una qualificazione astratta delle varie tipologie di sport, e dalla necessità di un’analisi condotta caso per caso che tenga conto della meritevolezza degli interessi legati alla pratica sportiva, non può che tornare di grande vantaggio il riferimento all’etica che consente di tener in conto la particolarità dell’attività sportiva, la vocazione sociale dello sport, quale momento di incontro e ambiente ideale ove educare al rispetto delle regole.
Per quanto riguarda invece gli altri due aspetti dobbiamo dire che sono state adottate delle specifiche linee guida per la pratica dello sport mirato soprattutto alla tutela della salute.